Una versione di questo documento è stata precedentemente pubblicata su The Italian Journal of Gender-Specific Medicine (www.gendermedjournal.it).

Durante l’ultimo convegno dell’Associazione italiana di epidemiologia, tenutosi dal 2 al 6 novembre 2020, il gruppo di lavoro su salute e medicina di genere, costituitosi in quei giorni, in collaborazione con il Centro nazionale per la medicina di genere dell’Istituto superiore di sanità, ha organizzato un webinar sullo stato dell’arte e le prospettive della medicina di genere nella pandemia di COVID-19.

La medicina di genere rispecchia una dimensione interdisciplinare della medicina e richiama l’attenzione sullo studio dell’influenza di sesso e genere su fisiologia, fisiopatologia e patologia umana. Con l’approvazione del Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere, nel giugno 2019, il concetto di “genere” in medicina viene inserito per la prima volta in Italia come garanzia di cure appropriate e personalizzate da erogarsi in modo omogeneo a livello nazionale. La pandemia di COVID-19 ha colpito in modo differenziale la popolazione anche sulla base del genere e, durante il webinar, sono state presentate le principali differenze di genere riscontrate, partendo dai meccanismi biologici e arrivando ai dati epidemiologici.

Hanno contribuito al webinar: Alessandra Carè ed Elena Ortona, del Centro nazionale per la medicina di genere dell’Istituto superiore di sanità di Roma; Eliana Ferroni, del Servizio epidemiologico regionale del Veneto; Patrizio Pezzotti, del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità di Roma; Isabella Tarissi de Jacobis, dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma; Cristina Mangia, dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche; Emilio Gianicolo, dell’Universitätsmedizin di Mainz in Germania.

Con la medicina di genere si rafforza il concetto di «centralità del paziente e di personalizzazione delle cure». Con questo importante concetto, Alessandra Carè ha cominciato la sua relazione introduttiva sulla salute e medicina di genere, sottolineando l’importanza di tenere conto delle differenze di genere a tutti i livelli della medicina, da quello sperimentale agli studi preclinici e clinici. Nonostante da più parti sia stata sottolineata la necessità di includere numeri bilanciati di soggetti dei due sessi negli studi clinici, le donne rimangono ancora sottorappresentate, in particolare nelle fasi iniziali degli studi, nonostante il loro organismo reagisca in modo diverso rispetto alla controparte maschile in molti casi. 
Innanzitutto, le donne hanno una maggiore speranza di vita alla nascita, sebbene gli anni guadagnati siano spesso vissuti con disabilità. Inoltre, per peso corporeo medio, maggiore percentuale di massa grassa e minore volume plasmatico, hanno un diverso profilo di assorbimento, distribuzione, metabolismo ed eliminazione dei farmaci, che determina una risposta diversa alle terapie. 

Molte delle principali patologie, inoltre, mostrano un’incidenza diversa nei due sessi, spesso anche il decorso della malattia non è lo stesso, e in alcuni casi anche la sintomatologia, come per esempio nell’infarto del miocardio. Malattie tumorali che generalmente colpiscono più gli uomini, nelle donne mostrano una diversa localizzazione, come nel caso del tumore del colon retto, che nelle donne colpisce spesso il tratto distale, mente negli uomini il tratto prossimale. Questa differenza si ripercuote nella diversa validità dello screening con la ricerca del sangue occulto nelle feci: i tumori più distali potrebbero, infatti, dare più frequentemente falsi negativi rispetto a questo esame, determinando un ritardo diagnostico e una prognosi più sfavorevole.  

Queste importanti differenze tra uomini e donne determinano un diverso impatto, in termini di complessità assistenziale e di carico di malattia, sul sistema sanitario. Eliana Ferroni, nella sua relazione sulle differenze di genere in epidemiologia, ha mostrato come per alcune malattie croniche il carico di malattia sia diverso a seconda del genere. Se per BPCO e diabete, malattie più frequenti nel sesso maschile, l’impatto sui servizi sanitari è in prevalenza determinato dagli uomini, per scompenso e demenza sono le donne che consumano più risorse da un punto di vista sanitario. Una stratificazione per genere dovrebbe essere effettuata in ogni analisi epidemiologica, al fine di mettere in evidenza eventuali differenze che, altrimenti, non potrebbero emergere. Attualmente due dei principali sistemi di valutazione degli esiti in Italia, come il Programma nazionale esiti e il Progetto bersaglio, presentano i dati dei loro indicatori senza effettuare alcuna analisi per genere. In ambito internazionale, invece, la tematica delle differenze di genere è molto attuale e in molti Paesi i dati epidemiologici vengono presentati stratificati per genere. Nel 2010, è stato istituito lo European Institute of Gender Equality (EIGE), un’agenzia dell’Unione europea, che ha come obiettivo l’eliminazione delle disuguaglianze di genere in tutti i settori, tra cui salute, istruzione e lavoro.

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I dati disaggregati per genere sono importanti, perché consentono di personalizzare le politiche sanitarie, andando incontro ai bisogni di salute della popolazione. Per questo motivo, raggiungere la “parità di genere” in epidemiologia è un obiettivo fondamentale.
L’Istituto superiore di sanità, nell’ambito dell’attività di reportistica della Sorveglianza nazionale integrata COVID-19, effettua di routine analisi epidemiologiche in un’ottica di genere. Nella sua relazione, Patrizio Pezzotti ha presentato una serie di analisi dei dati di incidenza, ospedalizzazione e mortalità per COVID-19 stratificati per sesso, mettendo in evidenza alcune importanti differenze di genere. All’inizio della prima ondata epidemica, l’andamento settimanale del numero dei casi ha mostrato un maggior numero di casi positivi diagnosticati nelle donne rispetto agli uomini, a causa della presenza di un maggior numero di donne nelle case di riposo. Questa differenza di genere è andata poi via via scomparendo e da giugno in poi l’andamento settimanale del numero dei casi è risultato simile nei due sessi. 

Il numero di diagnosi nelle donne in Italia è di poco superiore a quello negli uomini. Questa differenza, sebbene minima, aumenta ancora leggermente in un modello che, partendo dal tasso di letalità atteso, stima il numero di infezioni avvenute. Anche il tasso di incidenza di infezioni stimato è comunque superiore nelle donne rispetto agli uomini. Le donne con infezione, inoltre, presentano un’età mediana più alta degli uomini, il che riflette anche la composizione prettamente femminile della fascia di popolazione più anziana. 

Nel confronto con la popolazione immigrata residente, è emerso che la percentuale di casi positivi è più elevata nelle donne provenienti da alcuni Paesi, fenomeno che potrebbe essere spiegato da un’esposizione di tipo professionale (per esempio, badanti e operatrici sanitarie). In generale, a prescindere dal Paese di provenienza, gli uomini sono sempre più a rischio di ospedalizzazione, mostrano più accessi alle terapie intensive e hanno una mortalità maggiore, in particolare nella popolazione di età superiore ai 50 anni.

Infine, un’interessante analisi che ha valutato l’associazione tra indice di deprivazione e infezione di COVID-19 ha mostrato come in questa seconda ondata l’incidenza e la mortalità risultino più elevate nelle zone più deprivate; a parità di indice di deprivazione, non si osservano differenze di genere.
Nella sua relazione sulle differenze tra donne e uomini nell’ambito COVID-19 in relazione ai meccanismi biologici, Elena Ortona si è concentrata sui meccanismi biologici che potrebbero in parte spiegare le differenze di sesso osservate nei dati sul COVID-19. Le differenze a livello biologico possono essere correlate all’espressione del recettore ACE2 e del corecettore TMPRSS2, influenzati da fattori ormonali e da meccanismi di regolazione genetica ed epigenetica. SARS-CoV-2 penetra nelle cellule legandosi all’enzima ACE2 che è espresso su diversi tipi di cellule umane, tra cui le cellule dell’epitelio polmonare. ACE2 svolge a livello polmonare una funzione protettiva dai danni causati da infiammazioni, fibrosi e stress ossidativo. Quando il virus si lega ad ACE2 ed entra nella cellula, lo “impegna”, limitandone la funzione protettiva. Poiché gli estrogeni inducono un aumento dell’espressione dell’ACE2 e il gene specifico per tale recettore è espresso sul cromosoma X, è possibile ipotizzare un’espressione più elevata di ACE2 nell’epitelio polmonare delle donne che risulterebbero, quindi, più protette dalla sindrome respiratoria acuta. Anche l’espressione del TMPRSS2 è modulata dagli ormoni sessuali. Altri fattori che regolano l’espressione di ACE2 e TMPRSS2 sono alcuni microRNA, la cui espressione in molti casi è regolata dagli ormoni sessuali. Un altro aspetto rilevante che può contribuire alle differenze di sesso è rappresentato dalla risposta immunitaria più forte nelle donne rispetto agli uomini. Infine, diversi studi hanno messo in evidenza l’ipovitaminosi D come fattore di rischio per COVID-19. L’effetto antinfiammatorio della vitamina D è, però, diverso nei due sessi, essendo più efficace nelle donne a causa degli estrogeni. Concludendo, lo studio dei meccanismi molecolari alla base delle differenze di sesso in COVID-19 permetterà di identificare nuovi marcatori prognostici e predittivi e nuovi target terapeutici specifici per il sesso.

Isabella Tarisi De Jacobis, nella relazione sulle differenze di genere del COVID-19 in età pediatrica, ha sottolineato che gli studi disponibili hanno mostrato che i bambini si ammalano di meno, in forma più lieve e hanno una prognosi migliore rispetto agli adulti. Nei bambini ci sono più forme sintomatiche e/o paucisintomatiche e i sintomi, quando presenti, sono sovrapponibili a quelli degli adulti per quadro respiratorio, ma mostrano più frequentemente il coinvolgimento dell’apparato gastrointestinale. COVID-19 pediatrica si presenta prevalentemente nei maschi. L’ipotesi sulla prognosi migliore nei bambini e nelle bambine sembra essere correlata al loro sistema immunitario. I bambini mostrano una diversa risposta immunitaria adattiva. La ridotta maturità e funzione dell’ACE2 e la sua minore espressione nell’epitelio nasale potrebbero spiegare la ridotta suscettibilità a COVID19. In uno studio retrospettivo su una popolazione ricoverata all’Ospedale Bambin Gesù di Roma, è risultato che le femmine sono state ricoverate per periodi più lunghi e trattate con più farmaci rispetto ai maschi. I maschi avevano valori di marker infiammatori più alti ed erano più suscettibili alla trombocitosi.
Nella relazione “Sesso/genere e COVID-19: cosa dicono e non dicono i dati”, Cristina Mangia ed Emilio Gianicolo hanno presentato i dati di COVID-19 per sesso ed età in Italia, Germania, Spagna e Svezia, Paesi che hanno attuato politiche di contenimento diverse. Le donne sono più vulnerabili alle infezioni nella fascia d’età compresa tra i 30 e i 60 anni. La letalità è più elevata negli uomini che nelle donne. Il rapporto aumenta nelle fasce d’età più basse, a sostegno dell’ipotesi di meccanismi di protezione ormonale per le donne in età fertile. I dati di mortalità generale osservati/attesi in Italia nel periodo marzo-maggio 2020 rispetto al 2015-2019 mostrano un eccesso comparabile tra i due generi, con SMR pari a 132 per gli uomini e 127 per le donne. Queste differenze mettono in luce la necessità di comprendere meglio l’interazione tra genere ed età sia per la sorveglianza epidemiologica sia per una migliore appropriatezza di genere dei trattamenti profilattici e terapeutici in corso. La sorveglianza, tuttavia, è possibile solo se tutti gli indicatori (sintomi, malattie passate, assistenza sanitaria primaria e ospedaliera, ricovero ospedaliero) sono pubblicati per età e sesso. L’analisi delle cause di morte specifiche potrebbe aiutare a spiegare l’aumento della mortalità delle donne per le quali appare una minore letalità per COVID-19.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

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