Uno dei problemi ricorrenti in statistica e forse ancor più in epidemiologia sono le definizioni delle entità che si misurano o si enumerano e da cui spesso dipende l’andamento delle frequenze degli eventi considerasti. Talvolta nelle definizioni si è sostenuti da una norma stabilita da una “agenzia” alla quale ci si dovrebbe riferire, sia questa governativa o accademica, ma spesso anche non la si segue.

Nel far statistica sugli eventi  dell’epidemia da Covid-19 i principali problemi di definizione sono i seguenti: Chi è infetto e chi no? Come definiamo i “casi”? e chi non è caso non è sicuramente infetto? Chi è sintomatico? Per quali sintomi? E qual è la sicurezza della relazione tra sintomi e contagio? E gli asintomatici con sintomi non da Covid-19 sono sintomatici? Chi sono i decessi da Covid-19? E siamo sicuri che riconosciamo tutti e solo i casi di decessi dovuti al Covid-19?

Il problema della definizione delle diverse entità possono comportare anche gravi distorsioni nelle statistiche: L’incidenza è calcolata sulle diagnosi e non sappiamo quanto queste siano complete; la quota dei sintomatici per lo più ha solo una base soggettiva anamnestica; il calcolo della letalità dipende sia dalla correttezza della definizione della causa di decesso sia dalla completezza del denominatore costituito dal totale dei casi diagnosticati. Esaminiamo qualcuno di questi problemi.

Quanti infetti sono riconosciuti come casi?

La prima definizione di caso è stata data dalla circolare 2392 del 27 gennaio 2020 che distingueva i cassi sospetti, probabili e confermati. Per caso confermato si intendeva “Una persona con conferma di laboratorio effettuata [solo] presso il laboratorio di riferimento dell’Istituto Superiore di Sanità per infezione da 2019-nCoV, indipendentemente dai segni e dai sintomi clinici.” La definizione poi si è subito allargata (circolare n. 7922 Circolare Ministero Salute 9 marzo 2020) anche alle conferme effettuate presso i laboratori Regionali di Riferimento che rispondano ai criteri indicati alla circolare.

In questa prima fase dell’epidemia la disponibilità dei test molecolari era quindi molto limitata e venivano effettuati solo sui malati con grave sintomatologia che si presentavano presso un ospedale. Un trattamento più organico dell’argomento lo si trova nel rapporto ISS COVID-19 n. 49/2020 (ad esempio nella versione 8 giugno 2020) che da anche le definizioni di “contatto” e di “decesso” da Covid-19.

Infine nella circolare 705 dell’8 gennaio 2021 si pongono vari criteri clinici, radiologici, epidemiologici e di laboratorio utili alla definizione di caso, confermando però che caso confermato è solo “Una persona che soddisfi il criterio di laboratorio” ( ed tra questi sono stati inseriti anche i test antigenici rapidi)  e che ai fini della sorveglianza nazionale Covid-19 (sia flusso casi individuali coordinato da ISS che quello aggregato, coordinato da Ministero della Salute) dovranno essere segnalati solo i casi classificati come confermati secondo la nuova definizione.

In conclusione dal punto di vista delle statistiche del Ministero, i casi sono i soggetti con un test confermato positivo. Queste definizioni garantiscono la pressoche assenza di falsi positivi nella classificazione dei contagi ma lasciano ovviamente del tutto aperto il problema più grave, quello dei falsi negativi, cioè quanti soggetti infetti ci sono de ciorcolano senza che siano stati diagnosticati?

Una prima valutazione potrebbe ricavarsi dall’Indagine Istat/Ministero sulla prevalenza sierologica svoltasi da 25 maggio al 15 luglio 2020 e da cui sono state stimate in Italia un numero di 1.482.377 persone con IgG positive al Covid-19, cioè pari al 2,47% della popolazione. In una data intermedia, il 20 giugno, i casi accertati dall’inizio dell’epidemia con tampone molecolare positivo, risultavano essere 238.275, cioè lo 0,40% degli italiani. Quindi per ogni positivo diagnosticato sono stati trovati 6,22 sieropositivi. Questa quota di contagiati non diagnosticati risente però certamente della scarsa quantità di tamponi eseguiti durante tutta la prima ondata dell’epidemia.

Una seconda stima può esser fatta attraverso lo screening con test antigenico svoltasi a Bolzano dal 20 al 22 novembre 2020. Su 536.667 residenti hanno aderito allo screening 350.848, cioè il 65,4% e di costoro sono risultati positivi 3.619, cioè l’1,03%. Il 20 luglio in provincia di Bolzano la prevalenza di positivi attivi diagnosticati era di 11.511, cioè il 2,15%. Possiamo allora stimare che la prevalenza globale di infetti fosse del 3,18% e che i non diagnosticati fossero il 32,4%, cioè ogni tre infetti uno non era stato diagnosticato.

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Questa stima è importante quando si voglia poi stimare ad esempio la percentuale di infetti che vengono ricoverati o che muoiono, ma sarebbe anche importante avere delle stime accettabili di infetti per classi di età. L’indagine Istat da delle prevalente di sieropositivi  non molto diverse tra le diverse classi di età. La prevalenza sarebbe identica per genere e solo leggermente più elevata nella classe di età 50-59.  Oggi si osserva un aumento di incidenza di contagi nei minori ma non si può essere del tutto certi che questo sia un aumento reale di infetti o solo un aumento di casi diagnosticati anche come conseguenza delle notizie diffuse al riguardo o anche alla maggior prevalenza di banali patologie stagionali “a frigore”, usuali nei bambini nei mesi invernali, che potrebbero aver fatto aumentare i sospetti e quindi anche le pratiche diagnostiche con tampone. L’incidenza per età pubblicata dall’Istituto superiore di Sanità, infatti, sembra raccontare una realtà molto diversa e che fa sospettare che la bassa incidenza nei più giovani possa essere, almeno in parte, frutto di un basso tasso di accesso ai tamponi, magari aumentato nelle ultime settimane; sarebbe importante capirlo ma ahimè non sembra ci siano nei dati disponibili, gli estremi per risolvere il quesito! In conclusione non sappiamo, ahimè, neppure con stime grossolane, quanti potrebbero essere gli infetti non diagnosticati, né per età né totali, e questa incertezza si riversa sulle stime di molto degli indicatori che calcoliamo per valutare l’andamento dell’epidemia.

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Qual è il rapporto tra sintomatici e asintomatici?

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Un’altra incertezza riguarda poi il rapporto tra sintomatici e asintomatici. Nel rapporto dell’ISS sopra citato, viene riportato l’andamento dello stato clinico degli infetti diagnosticati qui a fianco riportato. Guardando l’ultimo giorno descritto, il 15/2, si vede come gli asintomatici siano più della metà degli infetti diagnosticati e se si aggiungono i pauci sintomatici si arriva ai tre quarti. Ma quali sono i sintomi? E sono sintomi generici o specifici? Il Ministero "ricorda" che i Centers for Disease Control and prevention statunitensi hanno identificato i seguenti sintomi come tipici dell’infezione COVID-19: febbre, tosse, dispnea, brividi, tremore, dolori muscolari, cefalea, mal di gola, perdita acuta di olfatto e gusto. Mi sembra evidente che molti sintomi sono comuni a tante banali disturbi e quindi quando la sintomatologia è lieve non è cosi certo che sia da attribuire al contagio da Covid-19 tranne forse per la perdita acuta di olfatto e gusto. Va anche osservato che molti  dei sintomi sono anamnestici ed auto dichiarati e soprattutto per nessuno è sempre agevole ricordare a quale giorno esattamente risalga la loro insorgenza.

Appare allora molto incerto il calcolo di qualsiasi indicatore, come l’Rt, che venga calcolato sull’informazione della data di inizio sintomi escludendo quindi la metà o i tre quarti dei contagi diagnosticati.

La codifica della causa del decesso

L’Istat e l’ISS hanno compilato un Rapporto approfondito riguardante la codifica delle cause di morte da Covid-19.

È probabile che i decessi accaduti in ospedale abbiano una certificazione e conseguente codifica corretta ed omogenea; molto diversa probabilmente è la situazione per i decessi avvenuti a domicilio soprattutto per le persone molto anziane con un decorso magari acuto dell’esito. Anche in questo caso ci saranno forse più falsi negativi che falsi positivi. Ma il problema del calcolo dell’incidenza forse non sta tanto nel numeratore quanto nel denominatore.

L’incertezza sulla misura della letalità è infatti una delle tante incertezze dell’epidemiologia delle infezioni da Covid-19. Si distingue solitamente il CFR (Case Fatality ratio) dall’ìIFR (Infect Fatality Ratio). La stima del CFR in questi giorni di inizio 2021 oscilla tra il 2,5% e il 3,5% mentre in. letteratura le stime dell’IFR vanno dallo 0,5% all’1,25%. Ciò significa che se queste stime fossero “vere” i nostri calcoli della letalità la sovra stimerebbero dalle 2 alle 7 volte! Come a dire che non ci azzeccano.

Che auspicare, allora?

Sarebbe allora necessario che da una parte le definizioni delle condizioni  riguardanti i contagi siano più chiare e vincolanti, che poi si possa valutarne l’applicazione da parte degli operatori e che inoltre per alcuni aspetti si abbiano delle stime di riferimento, magari ottenute con indagini campionarie, anche limitate, ma capaci di orientare l’interpretazione degli andamenti costruiti sui dati che provengono dalle attività assistenziali del SSN.

Per realizzare ciò che qui si auspica sarebbe buona cosa che a livello dei gruppi di lavoro ministeriali e inter regionali chiamassero anche gli epidemiologi esterni alle istituzioni del SSN ma attenti e propositivi; la loro collaborazione, se necessario anche critica, potrebbe aiutare a migliorare l’attuale sistema di lettura e di predisposizione delle misure necessarie di contenimento.

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