Stabilire se rendere o meno obbligatorio il vaccino contro SARS-CoV-2 è una questione pragmatica, oltre che etica e giuridica. Sul piano costituzionale non sembrerebbero esservi ostacoli, purché l’obbligatorietà venga normata per legge come previsto dall’articolo 32 della Costituzione. Il fatto che immunologi illustri come Sergio Abrignani (a favore dell’obbligatorietà) e Guido Forni (sfavorevole) abbiano espresso punti di vista divergenti deriva sostanzialmente da considerazioni pratiche: quale sarebbe il guadagno in termini di ampliamento della platea dei vaccinati e di consenso sociale di una strategia basata sulla obbligatorietà rispetto alla strategia attuale basata sulla persuasione e sul green pass? Mi pare evidente che il nodo è quello della comunicazione, cioè delle capacità comunicative delle istituzioni nei confronti di (ampie) minoranze riottose. 
Due contributi recenti aiutano a districarsi nell’universo dei no-vax e dei no-green-pass. Si tratta di un fronte estremamente composito che copre quasi l’intero arco delle posizioni ideologico-politiche, anche se i più rumorosi appartengono alle ali estreme. Fin dai tempi di Andrew Jeremy Wakefield e del suo (falso) studio sul rapporto tra il vaccino contro il morbillo e l’autismo, ricerche scientifiche empiriche hanno messo in evidenza che, pur all’interno di un ampio spettro di posizioni, grossomodo si possono distinguere gli irriducibili – convincere i quali richiede sforzi tali da rendere il tentativo talora inutile – e un’area grigia che è quella su cui soprattutto lavorare. Per quanto spesso difficile, si dovrebbe cercare di evitare una contrapposizione tra “noi” e “loro” anche nel caso degli irriducibili: difficile per l’apparente assenza in alcuni casi di un terreno logico e culturale comune, ma necessario. Per quanto riguarda l’area grigia, essa può aumentare o ridursi di ampiezza a seconda delle circostanze storiche e della risposta delle istituzioni e dei media. Per evitare la contrapposizione “noi e loro”, può essere più appropriato comprendere come la platea pubblica accoglie il messaggio scientifico; considerando che anche tra i sì-vax ci saranno strati di popolazione che accolgono il vaccino senza alcuno spirito critico, senza indagarne i rischi, magari per pura fede nella scienza o nelle leggi di mercato. E anche parte della zona grigia meglio informata potrebbe vaccinarsi, e con più consapevolezza.
La proporzione e la visibilità dei dissidenti (per esempio i no-vax) varia, infatti, a seconda dei periodi storici. Un’analisi interessante delle determinanti di queste variazioni è contenuta in un documento che proviene dalla World Bank e dall’Università George Washington.1 Il documento analizza in particolare il fenomeno della ricerca di “capri espiatori” nel corso delle epidemie. Tra le tante conclusioni importanti raggiunte, forse la più rilevante è il fatto che storicamente le teorie del complotto e il ricorso xenofobo a capri espiatori sono state più forti quando le autorità sono intervenute con mano pesante. Anche se nel caso di COVID-19 il fenomeno dei capri espiatori non sembra essere emerso se non marginalmente (qualche convergenza tra no-vax e antisemiti in Francia e anche in Italia; attacchi fisici ad alcuni medici), il suo meccanismo è ben noto: origina dalla frustrazione e dalla facile attribuzione delle responsabilità a una minoranza identificabile. Non si può escludere che esploda in futuro su altre questioni, per esempio quando le misure necessarie per combattere il cambiamento climatico verranno messe in atto. Solo per citare uno dei tanti paralleli storici, in Gran Bretagna nel 1831-32, durante una delle ondate epidemiche di colera, si verificarono violente manifestazioni di piazza contro le élite – di cui i medici erano considerati gli agenti – che avrebbero introdotto la malattia per selezionare la classe lavoratrice. In generale, il documento insiste sul fatto che le teorie del complotto e i fenomeni di persecuzione di minoranze (ebrei, immigrati) ebbero luogo soprattutto in periodi storici di instabilità e incertezza economica, e nei casi in cui l’origine della malattia era più misteriosa.
Il secondo documento utile è il libro Noise (Rumore), appena uscito, di Daniel Kahneman, Oliver Sibony e Cass Sunstein.2 Molto sinteticamente, il libro riguarda l’estrazione di conoscenze valide dal rumore di fondo che caratterizza la comunicazione odierna. Il rumore è fonte di errori, fattuali e logici, e gli errori sono tanto più frequenti quanto più alto è il rumore stesso – come nell’attuale situazione di saturazione dei canali informativi e di frammentazione delle comunità comunicative. Non parliamo qui di errori casuali, legati per esempio al piccolo numero di osservazioni, ma agli errori sistematici, come quando la bilancia con cui mi peso è starata e aggiunge sistematicamente 1 kg. Un fenomeno ben conosciuto è l’Effetto Dunning-Kruger: chi meno sa di un argomento, più ha tendenza a sovrastimare le proprie conoscenze e magari a sposare idee estreme. Un comportamento comune che rafforza gli errori cognitivi sistematici (bias) è quello che si fonda sul cosiddetto cherry-picking, cioè sul selezionare solo le osservazioni o gli studi scientifici che sostengono la propria tesi: cosa che fecero qualche mese fa alcuni politici della destra per sostenere che le chiusure non servivano, citando solo i complessi e discutibili articoli dell’epidemiologo John Ioannidis, mentre la realtà è che l’insieme delle osservazioni disponibili mostra chiaramente che le chiusure servono; e questo è il punto: dobbiamo usare tutte le informazioni, non solo quelle che ci fanno comodo, “scegliendo le ciliegie”.
Daniel Kahneman e colleghi suggeriscono alcune misure per ridurre l’errore che vengono definite di igiene deliberativa: quando si tratta di prendere decisioni importanti bisognerebbe mettere in atto una strategia di coinvolgimento dei cittadini tale da ridurre fin dall’inizio e il più possibile i rischi di bias. La democrazia deliberativa, per esempio, insiste sul processo decisionale più che sul risultato: se il processo deliberativo è buono, è più probabile che lo sarà anche l’esito. Attraverso modalità decisionali cicliche, la democrazia deliberativa mira a realizzare una convergenza tra le diverse posizioni attraverso l’identificazione dei motivi per cui le persone dissentono (diversi fatti di riferimento, diverse interpretazioni dei fatti, ignoranza deliberata dei fatti eccetera). Naturalmente ogni metodo ha dei limiti: non è chiaro quanti cicli siano necessari per convincere un terrapiattista… Secondo Kahneman e colleghi, elementi di igiene deliberativa dovrebbero essere inclusi in tutte le attività di comunicazione, inclusi i modi in cui lavorano i media; si potrebbe pensare a linee guida che impegnano tutti gli interlocutori a ridurre o almeno non aumentare il rumore di fondo e la polarizzazione. 
Quello che è ormai chiaro è che in futuro la politica avrà un gran bisogno non solo delle scienze della natura (biologia, medicina, meteorologia), ma anche molto delle scienze sociali e dei loro strumenti.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

Ringraziamenti: l’Autore ringrazia Luca Savarino per gli utili commenti.

Bibliografia e note

  1. Jedwab R, Kahn AM, Damania R, Russ J, Zaveri ED. Pandemics, Poverty, and Social Cohesion: Lessons from the Past and Possible Solutions for COVID-19. Washington, Institute for Internationl Economic Policy, 2020.
  2. Kahneman D, Sibony O, Sunstein CR Noise: A Flaw in Human Judgment. New York, Harper Collins Publishers, 2021.
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