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Venditori di fumo
Giuliano Pavone
Roma, Barney Edizioni, 2014
256 pagine, 16.90 euro

«Solo una cosa fa più rabbia della noncuranza con cui un’industria ha devastato ambiente e vite umane a fini di profitto: l’omertà e la connivenza di chi glielo ha permesso». Comincia così Venditori di fumo, il nuovo libro del giornalista tarantino Giuliano Pavone, che aggiunge un altro tassello alla letteratura giornalistico-documentaristica attorno al caso di Taranto e al suo lungo e controverso legame con l’industria pesante. Il titolo, che si rifà a una telefonata intercettata tra due membri della famiglia Riva, è emblematico delle emissioni nocive che da decenni ricoprono la città, ma anche della disinformazione, delle illusioni e delle omissioni di responsabilità che connotano il caso. Questo incipit è anche una sintesi del quadro politico, giudiziario e sanitario di fronte al quale si troverà il lettore leggendo degli eventi che si sono succeduti dal 2008 fino al giugno del 2014.

I primi due capitoli inquadrano il passato remoto di Taranto, più volte analizzato da giornalisti ed economisti, ma forse tenuto in poco conto da chi avrebbe potuto e potrebbe indirizzare in modo diverso il destino economico di questa città. Dall’arsenale militare all’avvento dell’Italsider, al ruolo della Marina Militare e alla monocultura industriale, con il conseguente appiattimento dell’economia locale e asservimento di istituzioni politiche e classe lavoratrice al datore di lavoro, che cambia nei decenni, restando, però, sempre pressoché unico. Successivamente l’autore rimette in ordine e commenta quanto accaduto negli ultimi anni, mantenendo volutamente sotto traccia l’importanza dell’Ilva di Taranto nella filiera dell’industria metalmeccanica e nel sistema economico nazionale. Così come in secondo piano è il valore che le istituzioni pubbliche attribuiscono al diritto alla salute. Puntuale e utile la ricostruzione delle vicende giudiziarie e medico-sanitarie attorno al caso Taranto, così come il riconoscimento del ruolo di alcune realtà associative del territorio che hanno, di fatto, accelerato il processo di sensibilizzazione – seppure ad oggi ancora in fieri – dell’opinione pubblica e delle istituzioni politiche. Varrebbe la pena di esplorare più a fondo se la scarsa importanza attribuita all’associazionismo locale dalla classe politica e dai media sia il frutto di una scelta ostruzionista deliberata o di una reale incapacità di intravedere un cambiamento in atto.

Così, il libro di Pavone riattribuisce la giusta importanza al ruolo dei movimenti cittadini, che hanno davvero demarcato il sentiero da seguire. L’autore ricorda l’irruenza, nell’agosto del 2012, del Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti, che irruppe con un bizzarro Apecar in una piazza cittadina durante una manifestazione sindacale. Dipinti dai media come una banda di violenti e facinorosi Ultras, questi attivisti vengono descritti dall’autore come cauti e ragionevoli, capaci di addivenire a più miti consigli. Forse avrebbe giovato un’analisi più approfondita del ruolo che le associazioni cittadine hanno giocato nella storia recente della città, ma, soprattutto, del vero problema che dilania l’attuale capitale sociale cittadino: la frantumazione delle istanze e delle associazioni in decine di comitati che ne diminuisce la capacità di influenzare l’opinione pubblica.

Interessante la notazione secondo cui Taranto, nonostante l’importanza strategica per l’economia nazionale, non esisteva fino a pochi anni fa nella memoria pubblica, restando così città invisibile, così come è capitato ad altre città con lo stesso destino. Soltanto nel luglio del 2012 la città diventa visibile, anzi, sovraesposta all’opinione mediatica nazionale: è il momento in cui il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco impone il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva, sulla base della perizia epidemiologica e di quella chimica. Poco prima i riflettori si erano accesi su Taranto per l’atroce delitto di Avetrana, seguito per lungo tempo dai media con morbosa attenzione.

Taranto diventa, così, il luogo dove si gioca la battaglia tra capitale, lavoro e diritti umani, uno scenario innaturale per TV, giornalisti in cerca di scoop e programmi televisivi, raggiungendo l’agognata ribalta, senza in realtà esserne realmente preparata.

Dal punto di vista scientifico, quello che ci pare molto interessante in quest’opera sono le conclusioni dell’autore, le stesse di un filone scientifico parallelo che si basa su una florida letteratura accademica e solide teorie di geografia economica: la teoria della path dependence, cioè della dipendenza economica cronica, ma anche sociale e cognitiva, da un sistema economico ormai divenuto subottimale per motivazioni politiche, macroeconomiche o ambientali, e che spesso attanaglia le numerose Taranto nel mondo. Pavone suggerisce che la crisi economica della città si sia verificata non “nonostante”, ma proprio “a causa” di quell’industria, o meglio della dipendenza esclusiva da un modello di sviluppo che, per motivazioni che vanno anche oltre quelle messe in luce nel libro, sembra non essere più il migliore possibile.

A pagina 61 si legge: «Scambiando gli effetti per le cause e lasciando che il cane continui a mordersi la coda […] continuiamo col siderurgico, senza capire che finché si continuerà a puntare solo sulla siderurgia non potrà mai nascere nient’altro».

Al lettore potrebbe sembrare una conclusione semplicistica, eppure è di grande realismo. Numerosi studi accademici descrivono casi di città dalle caratteristiche simili a Taranto che sono riuscite a modificare la propria storia economica soltanto puntando alla diversificazione delle attività economico- produttive. Nei casi considerati di successo, tutto è partito dalla capacità di immaginazione, dalla consapevolezza della classe politica e della società civile che i risultati sarebbero arrivati nell’arco di decenni. Il cambiamento sarebbe stato il requisito necessario per produrre un benessere socioeconomico più stabile e duraturo.

Proprio alle aree di vecchia industrializzazione, ai tentativi di riconversione e all’opportunità o meno di reindustrializzare le economie occidentali è dedicato il fascicolo 7(3) del 2014 del Cambridge Journal of Regions, Economy and Society. Tra i diversi articoli, al lettore interessato ad approfondire dal punto di vista scientifico i temi trattati da Pavone consigliamo Path dependence and change in an old industrial area: the case of Taranto, Italy (di Greco L, Di Fabbio M, pp. 413-31).

Sulla base di un lungo lavoro sul campo e di teorie economiche accreditate, le autrici descrivono i meccanismi di lock in, cioè di chiusura a tutto ciò che è nuovo, che hanno perpetuato per decenni e continuano a permeare tutt’oggi l’atteggiamento di path dependence in molte proposte emergenti per il futuro di Taranto.

Venditori di fumo si legge in modo scorrevole, con varie note anche divertenti e illuminanti sul carattere dei tarantini, sulle attitudini culturali e sul dialetto locale. Non per altro il sottotitolo del libro è Quello che gli italiani devono sapere sull’ILVA e su Taranto… e non soltanto sull’Ilva di Taranto. Auspichiamo che in futuro possano nascere fruttuose collaborazioni tra accademici e giornalisti accorti, capaci di diffondere al grande pubblico tematiche che potrebbero altrimenti risultare ostiche da divulgare o difficili da comprendere. Un connubio finora solo intuitivo, ma che potrebbe davvero portare a una ribalta stabile (è un ossimoro possibile?) della situazione tarantina su più fronti.

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