L'Rt è da abolire o da modificare?

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Sembra quasi oggi che si sia trovato il colpevole delle troppe restrizioni: è l'Rt, l'indice di contagiosità adottato dall'Istituto Superiore di Sanità, calcolato da Stefano Merler della Fondazione Kessler di Trento, secondo la metodica proposta in letteratura da Cori et al. nel 2013 (Cori et al., 2013, American Journal of Epidemiology, 178,9, p. 1505 -1512).

Questioni relative all'algoritmo di calcolo

L'impressione però è che, come si dice, assieme all'acqua sporca si getti via anche il bambino! E' quindi opportuno innanzitutto chiedersi se il problema dell'Rt sta nell'algoritmo di calcolo piuttosto che nei dati che utilizza o nell'informazione che intende fornire.

Rispetto alle critiche sui diversi metodi di calcolo si è già più volte concluso che questi, seppur in teoria anche molto differenziati, fondamentalmente portano a risultati molto simili. Si veda ad esempio i confronti pubblicati dall'INFN e non è più il caso qui di ritornare su questo punto ormai acquisito.

Questioni relative ai dati che si considerano

Le differenze invece diventano importanti a seconda dei dati che si utilizzano, e in particolare se si considerano le frequenze per data di diagnosi mediante tampone o per data di inizio sintomi, rilevata per via anamnestica. La scelta dell'ISS, coerente con la metodica proposta da Cori, di utilizzare la data di inizio sintomi si giustifica soprattutto per due ragioni: la prima è che si ritiene che i soggetti sintomatici non sfuggano alla diagnosi come accade invece per gli asintomatici la cui rilevazione, quindi, dipende dalle strategie di somministrazione dei test diagnostici con tampone.

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La seconda ragione è che si ritiene più omogenea la latenza tra contagio ed inizio sintomi che tra contagio e diagnosi. Tutto ciò è vero ma non si considera che per avere frequenze complete per data di inizio sintomi si devono aspettare purtroppo molti giorni come dimostrano i dati pubblicati dall'ISS.

Nel grafico sono presentati i dati pubblicati dall'ISS il 27 aprile e l'11 maggio 2021 relativi ai casi con inizio sintomi dal 28/3 al 27/4 de si può notare che il completamento dei casi avviene all'80% entro il 9° giorno, il 90% entro il 15° e il 95° entro il 21°. Sono naturalmente esclusi i casi che si dichiarano asintomatici alla diagnosi.

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Il giorno della diagnosi, viene chiesto all'infetto quanti giorni prima erano sorti i sintomi riconducibili al contagio da Covid. Confrontando le frequenze pubblicate si può ricostruire la distribuzione delle frequenze per inizio sintomi secondo il numero di giorni precedenti alla diagnosi.

Ciò significa che se si vogliono avere dati con un grado sufficiente di completezza al 95% si può ragionare solo su delle frequenze di casi con sintomi iniziati tre settimane prima e quindi contagiatisi circa un mese prima. Se invece si utilizza il dato della diagnosi si può ritenere che, se la distribuzione per giorni di distanza dal contagio rimane costante, l'infezione possa riferirsi a soli 15 giorni prima corrispondenti alla mediana dei casi. Da queste osservazioni si può dedurre che l'utilizzo della data di inizio sintomi permette una maggiore precisone ma fa perdere circa 15 giorni che sono preziosi quando si debbano decidere delle misure di contenimento dell'epidemia. Per questo motivo l'indicatore da noi proposto, l'RDt, e che chiamiamo indice di replicazione diagnostica e che è disponibile nel sistema MADE, risulta più adeguato ai fini del monitoraggio operativo. Per altro la proposta attuale è quella di utilizzare i dati dell'incidenza ricavabili dalle frequenze per data di diagnosi e che comprendono anche i casi asintomatici.

Questioni relative all'informazione che se ne ricava

L'estendersi dell'epidemia può rappresentarsi come una macchia che si estende su una tovaglia: l'area della macchia corrisponde al numero totale degli infetti, la velocità di espansione corrisponde al numero di casi nell'unità di tempo, cioè all'incidenza giornaliera, ma l'ulteriore informazione importante è se questa velocità aumenta, rimane stabile o diminuisce: questa informazione è quella che viene fornita dagli indici di replicazione, cioè alla famiglia degli "erre ti". E' importante sottolineare come questa informazione sia molto rilevante e non deve essere tolta da un sistema efficiente di monitoraggio. Facciamo un esempio numerico per capirne la rilevanza.

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Se esaminiamo la situazione finale e ragioniamo sull'incidenza settimanale riteniamo che l'area A sia molto a rischio e la C sia quella con il rischio minore dato che si espandono la A alla velocità di 250 casi a settimana, la B a 200 e la C a 150. Ma se consideriamo solo a velocità non ci accorgeremmo delle accelerazioni molto diverse! Nella A i casi in una settimana si stanno dimezzando, nella B sono stabili, nella C si stanno triplicando. Dove pensate sarebbe meglio introdurre misure più rigide di contenimento? La risposta mi sembra ovvia. L'indice RDt che noi sosteniamo è esattamente un indice di "accelerazione" calcolabile semplicemente come rapporto tra le incidenze delle ultime due settimane.

Una soglia minima sul numero di tamponi

E' evidente che "per trovare bisogna cercare" e quindi più tamponi si fanno più è probabile che si diagnostichino dei positivi. Sarebbe però necessario avere le frequenze disaggregate delle tre diverse categorie di accesso ai test diagnostici: i tamponi effettuati per un sospetto diagnostico conseguente alla presenza di sintomi, i tamponi per risolvere i dubbi nei casi di contatti avuti con dei contagiati, i tamponi richiesti solo per motivi di cautela per poter accedere a servizi o riunioni.

Le probabilità di positività a priori sono ovviamente molto differenti nelle tre categorie e il così detto tasso di positività globale assume scarso significato perchè molto dipende dalla quota delle tre categorie presenti.

Delle tre categorie la sola di cui varrebbe la pena fissare una quota è la seconda, quella dei sospetti per contatti, che potrebbe essere definita come percentuale dei casi positivi del giorno.

Indicatori di letalità e di ospedalizzazione

Tra le proposte di trasformazione dei criteri per definire le categorie regionali di rischio c'è quella di utilizzare maggiormente l'informazione relativa alla malattia rispetto a quella del contagio.

Le motivazioni riguardano sia la sostenibilità dei servizi sia la valutazione della gravità degli esiti. Sicuramente questi sono indicatori da considerare però è bene innanzitutto rendersi conto della loro elevata omogeneità rispetto all'incidenza dei contagi.

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La letalità, qui calcolata come rapporto tra i decessi e i contagi di tredici giorni prima (che è la media dei giorni registrati tra diagnosi e decesso) negli ultimi mesi è stabile attorno al 2% e non dà molte informazioni in più rispetto all'incidenza dei contagi. L'utilizzo poi a livello regionale è problematico in quanto servirebbe l'indicazione delle età dei deceduti, informazione attualmente non disponibile tempestivamente. Anche gli accessi alla terapia intensiva sono percentualmente stabili seppur in leggero aumento. Usare quindi questi indicatori o quelli dei contagi non porta a differenze importanti.

Si stia però attenti a non dare eccessiva importanza a questi indicatori nella determinazione delle misure di contenimento perchè potrebbe innescarsi, anche senza volontarietà e neppure immediata percezione, un disincentivo all'ospedalizzazione o alla diagnosi corretta di decesso per cercare di ridurre la possibilità di chiusure non desiderabili della propria Regione.

Ma che denominatori usiamo?

L'ultima questione da valutare è se sia corretto o meno oggi calcolare molti indicatori prendendo come denominatore l'intera popolazione oppure non sia più corretto considerare i soli suscettibili. Se in una popolazione di un milione di abitanti ci sono 1000 casi è diverso se tutti loro sono suscettibili ovvero se la metà non lo è più, o lo è molto di meno, in quanto già contagiatosi o vaccinato. L'incidenza da considerare è di 1000/1.000.000 o di 1000/500.000?

Si continua a proporre una soglia di 250 casi settimanali su 100.000 persone, ma questi sono tutti i residenti o quelli potenzialmente più a rischio di contagio in quanto senza alcuna forma di immunizzazione?

Conclusione del discorso

Nonostante si sia detto e ripetuto che l'AIE potrebbe dare un contributo metodologico importante, nonostante l'impegno dimostrato con la rivista E&P e con i congressi sui temi dell'epidemia, nonostante gli strumenti elaborati e messi a disposizione della comunità, nonostante tutto ciò sembra si preferisca ricevere critiche, talvolta anche molto serie, piuttosto che confrontarsi a priori nell'interesse di tutti. Riconfermiamo che MADE, e chi collabora con MADE, offre volontariamente la propria collaborazione

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