Il caso

La conservazione e utilizzazione di campioni biologici di vario tipo (plasma, siero, membrane cellulari, urine, preparati istologici) per la ricerca epidemiologica è andata rapidamente espandendosi negli ultimi anni, essenzialmente in due distinti contesti, clinico ed epidemiologico. Il contesto clinico offre la possibilità di utilizzazione ulteriore ai fini di indagini epidemiologiche, tipicamente studi caso-controllo, del materiale raccolto primariamente a scopo diagnostico: l’accresciuta attenzione a questa opportunità sta portando alla formazione di archivi ben organizzati che rimpiazzano le raccolte alla rinfusa ancora dominanti negli ambienti clinici. Il contesto epidemiologico ha visto lo sviluppo recente di numerosi studi prospettivi a lungo termine di cui è un esempio lo studio multicentrico europeo EPIC su nutrizione e tumori coordinato dalla International Agency for Research on Cancer (IARC): in questi studi i campioni biologici sono raccolti al momento dell’arruolamento dei partecipanti nello studio per poter essere utilizzati successivamente in molteplici studi caso- controllo condotti entro la coorte. Sottostante all’interesse per la conservazione nel tempo dei campioni, sia nel contesto clinico sia in quello epidemiologico, è l’enormemente aumentata potenzialità di misurare marcatori biologici di esposizione, lesioni precoci e suscettibilità (nonché di marcatori prognostici) derivante dal progresso delle tecnologie di microanalisi. L’utilizzo sistematico di tali campioni ha messo in piena luce un insieme di problemi di natura etica che erano finora rimasti largamente impliciti. Tali problemi si possono riassumere in sei quesiti principali.

Il quesito

  • A chi appartengono i campioni in archivio?
  • A chi spetta la conservazione e tutela dei campioni?
  • Quale uso dei campioni è consentito ai fine di ricerca?
  • Vi è differenza rispetto all'uso di informazioni fornite dai soggetti di uno studio?
  • A chi spetta verificare la correttezza dell'uso?
  • A chi devono essere riferiti i risultati?

Il commento

Sulla questione del possesso dei campioni esistono due scuole di pensiero nettamente divergenti. Secondo l’una, presente negli Stati Uniti e in altri paesi, il problema può essere impostato e discusso dal punto di vista etico in termini di proprietà, legalmente intesa: questa viene a dipendere dalle modalità specifiche in cui è stato raccolto il campione e ottenuto il consenso del soggetto, il quale può avere ceduto la proprietà del campione – con tutti i diritti legali che la definiscono – con o senza un compenso monetario. Secondo l’altra scuola, nettamente prevalente in alcuni paesi europei (Scandinavia, Francia), eticamente il corpo umano e le sue parti sono beni inalienabili e quindi non sussite fondamento su cui basare un diritto di proprietà: il ricercatore non può divenirne proprietario e deve essere considerato unicamente come titolare di un diritto di custodia e di accesso e uso del campione.
Tali diritti possono essere ritirati in qualunque momento, laddove il passaggio di proprietà è irreversibile se non c’é accordo delle parti. Il fatto di non essere proprietario dei campioni limita anche la discrezionalità di uso, così come di trasferimento del diritto di custodia, accesso e uso ad altri ricercatori.
La limitazione della discrezionalità implica che il ricercatore non può decidere autonomamente su questi aspetti, ma deve acquisire il parere di un organo come un comitato etico.
Il diritto di custodia pone, ancora di più che nel caso in cui si considerassero i campioni una semplice proprietà del ricercatore, un obbligo di protezione fisica e di blocco dell’accesso, inclusa la protezione dei dati identificativi personali e dei valori delle determinazioni analitiche eseguite sui campioni. Questa necessità, che nasce dal principio (di non-maleficenza) di non creare danno alle persone attraverso la sottrazione di un materiale di loro appartenenza o attraverso la divulgazione di dati privati, non esaurisce gli obblighi di natura etica connessi all’uso dei campioni, che deve sottostare anche a quanto deriva dal principio di rispetto dell’autonomia decisionale personale.
Per definizione l’uso in un’indagine epidemiologica di campioni archiviati avviene a distanza di tempo, spesso diversi anni, dal momento della raccolta.
Nel contesto clinico appare eticamente accettabile che un campione possa essere usato anche dopo anni per studi sulla patologia per la quale è stato prelevato in fase diagnostica, nella misura in cui il paziente aveva dato a suo tempo un consenso all’uso anche ai fini di ricerca dei materiali diagnostici.
Appare al contrario assai problematico l’uso per scopi di ricerca diversi da quelli relativi alla malattia in esame: in questo caso la situazione si avvicina a quella degli studi epidemiologici prospettivi. Solo in una minoranza – in realtà forse in nessuno – di questi studi i campioni sono stati raccolti e il consenso formulato specificando esattamente tutte le determinazioni di esposizione e suscettibilità da effettuare e tutte le patologie da studiare: il consenso è spesso formulato in termini generali quali «per studiare il ruolo degli inquinanti ambientali nelle patologie respiratorie, in particolare i tumori polmonari». Si va affermando la posizione che considera questo consenso valido per i soli elementi citati esplicitamente, cioè misure di esposizione (e non anche di suscettibilità genetica o acquisita) e tumori polmonari. Consensi ancora più generici vengono in questa impostazione etica equiparati a consensi al prelievo e conservazione dei campioni ma non all’uso, da precisarsi in un secondo tempo.
Questa impostazione poggia sulla differenza fondamentale che intercorre tra le informazioni fornite dal soggetto stesso e quelle acquisibili su un campione biologico. Per le prime il fatto stesso che la persona risponda a una domanda (per esempio sulle pratiche sessuali) implica – ove vi sia un consenso alla ricerca non specifico per ciascun item informativo raccolto – che quel dato sarà utilizzato per lo studio e quindi che esiste un valido consenso.
Nel caso del campione biologico, la ignoranza da parte del soggetto della determinazione analitica da eseguire non gli permette, di fatto, di formulare alcun specifico consenso. In questo ambito la verifica dei requisiti del consenso riveste quindi una rilevanza cruciale. Essa è di pertinenza del comitato etico che supervisiona lo studio. Vi è unanimità sulla necessità che l’ uso di campioni archiviati sia subordinato al parere del comitato di etica a cui spetta la responsabilità di accertare l’esistenza e validità del consenso.
E’ interessante a questo proposito notare che il comitato di etica della IARC ha del tutto recentemente ritenuto che, in linea generale, le proposte di uso di campioni provenienti da diversi paesi e custoditi presso la IARC nel quadro di studi prospettivi debbano essere sottoposte non solo al comitato stesso ma anche ai comitati dei paesi di origine dei campioni. Questa posizione testimonia della necessità di tenere conto dell’evoluzione, differenziata da paese a paese, che gli standard di riferimento etico hanno subito negli ultimi anni e stanno tuttora subendo.
A chi devono essere riportati i risultati delle determinazioni eseguite sui campioni (oltre che, sotto garanzie di confidenzialità, ai ricercatori coinvolti nello studio)? La situazione appare chiara se è stato spiegato e accettato dai partecipanti che i risultati saranno loro comunicati o, al contrario, che i campioni sono destinati alla ricerca senza impegno di comunicazione. Questa seconda opzione è praticabile ogni volta che l’indagine si proponga di studiare variabili biologiche (tipico oggi l’esempio dei polimorfismi genetici) di rilevanza etiologica ancora oscura o incerta. Può tuttavia accadere che o perché il risultato della indagine è di per sé così solido e dimostrativo o perché sono state aggiunte – per una qualunque imprevista ragione – anche determinazioni di variabili già conosciute come predittive di un rischio che la situazione si presenti più problematica di quanto appariva al momento del consenso fornito dai soggetti. Ove infatti si riveli l’esistenza di un rischio ben definito per il soggetto stesso e/o per i familiari (nel caso di fattori genetici) e/o per i soggetti a contatto (nel caso di agenti infettivi) è probabile che il comitato di etica indichi di prendere contatto con il soggetto per prospettargli la possibilità di ricevere questa informazione e chiarirgliene le implicazioni per sé e per gli altri. Nel caso particolare di un soggetto portatore di una condizione non suscettibile di trattamento e pericolosa per altri è eticamente assai discutibile se si possa obbligare il soggetto a ricevere l’informazione, essendo – nel contesto di uno studio – prioritario l’interesse del soggetto che ha accettato di parteciparvi rispetto a quello di altri.

Rodolfo Saracci, IFC-Consiglio
nazionale delle ricerche, Pisa

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